giovedì 11 novembre 2010

IL DIPENDENTE INCAZZATO

Il dipendente incazzato è un' evoluzione del dipendente rassegnato, ossia segue fino ad un certo punto lo stesso processo di crescita del dipendente rassegnato per giungere ad una straordinaria metamorfosi : quella del dipendente incazzato.
Il dipendente incazzato non è un super man e non è neppure una wonder woman, anzi, è spesso debole, stanco, avvilito, umiliato. Ma proprio per questo, perchè malgrado tutto non dimentica di essere un servitore dello Stato sente che non può rassegnarsi, che non può lasciare che vinca l' autocrazia, la prevaricazione del forte sul debole, il disconoscimento del diritto a favore dei soprusi, la prepotenza del potente, la vittoria dell'ingiusto sul giusto Per questo studia, si informa sulle leggi, sulle normative, le fa sue , le rispetta, le tutela, da loro voce fino a che le sue possibilità glielo permettono.
Ed è per questo, sì proprio per questo , perchè esistono ancora uomini e donne che non si arrendono alle minacce, alla paura di essere calpestati dalla forza dell'arroganza, dalla prepotenza dei tiranni, proprio per questo amo il lavoro che faccio : ossia quello d'essere al servizio della comunità. Della Democrazia. Della Legge.
E fanculo chi lo intende in altro modo. Và.

mercoledì 10 novembre 2010

IL DIPENDENTE RASSEGNATO


Eccolo qua il dipendente rassegnato: ha già almeno una decina di anni di servizio. Lo riconosci sin da quando timbra il cartellino: arriva con passo lento, lo sguardo fisso, saluta i colleghi con un mezzo sorriso, compra il giornale, prende il caffè in compagnia di uno o due colleghi preferiti, scambia quattro chiacchiere con i passanti ed infine entra nel suo ufficio. Voi che lo vedete così metodico e langue non crediate che sia sempre stato così: un tempo giungeva in ufficio almeno dieci minuti prima e subito si affrettava a controllare le pratiche urgenti, quelle inevase, quelle già intraprese e smaltiva velocemente il suo lavoro. Controllava la posta, chiamava il messo e se non rispondeva lo richiamava fino a che non ne veniva a capo ancora e così via. Ma la vita, come si dice ci è maestra ed è da lei che infine dobbiamo apprendere il comportamento più funzionale da adottare.

Il dipendente rassegnato, un tempo , si appassionava molto, non dormiva neppure la notte per cercare di risolvere certe difficoltà che aveva incontrato durante uno dei suoi lavori. Cercava di definire presto la pratica in corso per potersi occupare di quella successiva e così via. Fino a che non è successo che, malgrado lavorasse tanto e bene, veniva convocato dai grandi capi per spiegare come mai aveva usato la biro nera invece che la blu, come mai aveva salutato prima Gino invece che Vittorio , come mai non aveva acceso la luce prima di accendere il pc e finiva, appunto per perdere tutta la sua giornata a disquisire su queste piccole cose che non avevano niente a che fare realmente sull buon andamento del servizio se non come diaspore infinite.

Il dipendente rassegnato è quello che, in tempi storici, dava tutto se stesso.

Era l'impiegato amato dai cittadini , quello al quale si rivolgevano per risolvere le piccole incombenze di servizio, quello che rappresentava l'immagine operosa della pubblica amministrazione e della città , insomma l'impiegato rassegnato , un tempo era stato l'impiegato modello quello che si potrebbe definire " L'uomo giusto al momento giusto".

Ma proprio per questo non era amato nei piani alti. Dava l'idea di essere il migliore, il più bravo e toglieva visibilità a chi aveva fatto tanto per ottenerla ossia : a chi abitava le stanze del potere: colui che che s'era fatto i cartelloni pubblicitari per giungere sin lì e che ci teneva terribilmente a non perdere la leader ship acquisita.

A poco a poco l'impiegato giusto veniva isolato, denigrato, umiliato, lasciato senza lavoro oppure incaricato di servizi tanto inutili quanto svilenti, veniva rimproverato per un nonnulla, messo in condizione di sbagliare, intimorito, ignorato, bistrattato fino a renderlo un impiegato come gli altri: finalmente inutile ed anche noioso, rassegnato, pigro e assenteista ossia l'impiegato che nessuno poteva prendere ad esempio: il classico dipendente di ente pubblico.

Ma non crediate che la sua sia una vita d'inferno: affatto. L'impiegato rassegnato si è trovata la sua dimensione alfine ideale: svolge i suoi piccoli incarichi senza senso , organizzandosi le ore lavorative in un susseguirsi di momenti tranquilli e piacevoli che gli permettono di giungere alla fine della giornata.

E' riuscito ad elaborare la sua funzione ed a dare la giusta calibratura tra esistenza e lavoro, tra crescita culturale e posizione organizzativa. Ha compreso che il lavoro nobilita ma la propria vita è quanto di più importante esista. Non è egoismo ma realismo e soprattutto istinto di sopravvivenza.

Non abbiate pena per il dipendente rassegnato: in fondo lui è felice , ha trovatol'unico sistema che gli permette di sopravvivere in questa nostra società di affaristi e ruffiani.

martedì 9 novembre 2010

IL DIPENDENTE LACCHE'


Come farebbero certe alte cariche, quelle incompetenti e impreparate, senza quel continuo alito di fiato pressante e determinato degli adulatori ? Diciamolo sinceramente: un minimo di atteggiamento complimentoso fa piacere a tutti, anzi, con me usatelo pure, non mi offendo. Ma una cosa sono gli incoraggiamenti, le pacche sulle spalle , la disposizione alla collaborazione e un'altra sono le smancerie gratuite, quelle che cominciano quando arrivi e finiscono quando te ne vai.

Eppure il dipendente lacchè va per la maggiore: piace molto e ha successo.
Il dipendente lacchè, qualsiasi cosa succeda, sta sempre con chi vince. Non è facile riconoscerlo, ma dopo un po' che lavori nella stessa ditta o ente pubblico non fai fatica ad individuarlo.
Questo, di solito, ha un atteggiamento salottiero, si intrattiene spesso nel corridoio e cammina avanti ed indietro come se stesse facendo qualcosa. In realtà è solo appostato, stile avvoltoio, in attesa che giunga il potente di turno. E allora è in quel momento che da sfoggio di tutte le sue arti scandalosamente manierose, gli corre incontro ed è già disposto ad assecondare ogni suo desiderio che sia da portare un bicchier d'acqua o scartargli una caramella alla menta.
Il dipendente lacchè è capace a riverire, ostentare ammirazione incondizionata, a lodare ogni espressione del suo volto, ogni anelito del corpo e persino (ve lo posso garantire perchè ho assistito in prima persona a tale dimostrazione di deferenza) persino a togliergli il cappotto dalle spalle: operazione di se per se' difficile da fare da soli con un ruffiano alle spalle. E' una cosa che il potente di turno non sa mai fare da solo, quando si trova a cospetto di un dipendente lacchè.

Lui , il dipendente lacchè, gli si pone alle spalle e con gesto sfacciatamente disinvolto gli sfila il cappotto e glielo compone con attenzione estrema, con cura scrupolosa nel suo apposito appendiabiti. Poi lo intrattiene con storie fantasiose sulle vicende private di quello o quell'altro dipendente oppure di come lui abbia passato la giornata per finire col chiedergli se ha bisogno di mangiare o bere.
Intanto le ore di lavoro passano, il potente di turno così assediato e così assecondato non ha potuto lavorare, capire, imparare, ma si è sentito molto bene, molto apprezzato, molto amato, riverito, servito, incensato e questo non fa che alimentare la sua sete di ammirazione e devozione. Questo principio di essere si trasforma in una specie di ingranaggio triturante: più sei adulato e più ti senti meritevole di ricevere adulazioni . Più te ne senti meritevole e meno riesci a comprendere i tuoi errori poichè non li vedi , non vuoi vederli, essendo ormai certo d'essere come gli altri vogliono farti credere che tu sia. E' così che da ciò che poteva divenire un ipotetico buon manager si costruiscono demeriti e arroganti decisionisti dell'ultima ora che ti mandano a rotoli ditte di buon nome o enti pubblici virtuosi.
Ma il dipendente lacchè non ama mai chi lusinga: fa tutto questo solo perchè non sa lavorare e si è accorto di come l'essere umano sia così sensibile ai complimenti da riuscire a fare a meno persino di gente che , invece, lavorare sa.Oh cari superiori, diffidate di chi non riesce a farvi una benchè minima critica ! Accogliete chi si confronta con voi e vi rispetta come uomini imperfetti ma capaci di crescere e di superarvi nelle opere e nelle virtù.

lunedì 8 novembre 2010

IL DIPENDENTE INUTILE


C'è un aforisma sul lavoro che mi piace ricordare sempre , è questo:

" Il 50% dei dipendenti pubblici si sentono inutili, il restante 50% lo è ."

Sicuramente nell'ambiente lavorativo si trovano molti personaggi con caratteristiche quasi macchiettistiche . Per esempio si può trovare la figura dell' " l'impiegato inutile." Ma vi sono tante altre figure di cui scriverò diffusamente in altri post.


Nella vostra vita lavorativa, chissà quante volte v'è capitato di incontrare il classico tipo DELL'IMPIEGATO INUTILE.


Ossia il tipo che ti ritrovi chissà come, o meglio, per una serie di circostante fortuite (per lui , un po' meno per gli altri,) a interagire con te senza riuscire a evitarlo, a deviare la tua strada dalla sua, senza poter far finta di vederlo, con cui devi insomma in qualche modo interloquire.


Capita a tutti prima o poi, non c'è scampo. Questo tipo è simile a quello che per anni ha spostato pratiche da un posto ad un altro ed ora che fa qualcosa di diverso, cioè un lavoro da penultimo, lo sorprendi a definirsi un Pi - erre, uno che cura, insomma, le public relations ma non capisce una mazza, non ha competenza di nulla, non ha nuove idee , le vecchie le ha dimenticate, non sa parlare e scrive anche peggio, è disordinato e confuso.

Il brutto è che ne è pure un po' consapevole ed allora cerca di mascherare la sua inefficienza con tutta una serie di operazioni, tra i quali quello di insabbiare i dettagli importanti o di girovagare con gli occhi vagamente scandalizzati per confondere le acque, o ancora di rispondere a monosillabi o non rispondere per niente, tutte cose che pregiudicano alla fine il risultato positivo di un lavoro.

Dice: " io l'ho detto! " come se la gestione del lavoro fosse un " pour parler" in corridoio e che la comunicazione scritta fosse un optional.

E' quello che, per tanti anni , vissuto come in una campana di vetro, protetto dentro un batuffolo rosa di protezioni amiche , quando gli amici se ne vanno , si ritrova davanti alla realtà crudele, maledice il destino elettorale, e si indigna pure di come la vita sia dura e che alla fine bisogna anche lavorare un po'.

E' quello che cerca di ovviare a queste nuove incombenze non con un forte impegno o con una rivoluzionaria dedizione al lavoro, ma con un operazione di sottile e strisciante cortigianeria all'indirizzo del capo di turno.

Dice: " Chi fa sbaglia. " quando gli fai notare una grossa incongruenza, come se fosse un argomento pacificatore. Ma quello che si sbaglia è soprattutto lui che associa l'azione all'errore come fosse un conseguenza biologica INEVITABILE.

Capita , allora, che ti viene voglia di incazzarti, che vorresti dar fuori, ma poi tu, che sei ancora presa da tutte le tue ansie esistenziali , che vivi di dubbi e di guai, tu, che ti chiedi sempre se fai bene a fare come fai, che cerchi di condividere e cerchi di partecipare ai grandi progetti , ti convinci di come sei stata fortunata ad inciampare in una persona così e che per te tutto questo può rivelarsi una terapia d'urto.

Ti dici: " Allora non sono la peggiore in questa terra" e riesci persino a trovare quei suoi modi inutilmente arroganti quasi necessari perchè tu possa apprezzare le piccole gioie della vita ( come una giornata senza la sua presenza)e come alla fine il bene possa emergere in tutta la sua potente energia, in tutto il suo splendente fulgore.

Insomma, bisogna pur dare uno scopo al " bene " per distinguersi. E che lo scopo sia almeno quella di non permettere alla pochezza della vita di prevalere. Se non altro.


E non altro.